Книга: Il fu Mattia Pascal / Покойный Маттиа Паскаль. Книга для чтения на итальянском языке
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VII

Cambio treno

Pensavo:

«Riscatterò la Stìa, e mi ritirerò là, in campagna, a fare il mugnajo. Si sta meglio vicini alla terra; e – sotto – fors’anche meglio.

«Ogni mestiere, in fondo, ha qualche sua consolazione. Ne ha finanche quello del becchino. Il mugnajo può consolarsi col frastuono delle macine e con lo spolvero che vola per aria e lo veste di farina.

«Son sicuro che, per ora, non si rompe nemmeno un sacco, là, nel molino. Ma appena lo riavrò io:

«– Signor Mattia, la nottola del palo! Signor Mattia, s’è rotta la bronzina! Signor Mattia, i denti del lubecchio!

«Come quando c’era la buon’anima della mamma, e Malagna amministrava.

«E mentr’io attenderò al molino, il fattore mi ruberà i frutti della campagna; e se mi porrò invece a badare a questa, il mugnajo mi ruberà la molenda. E di qua il mugnajo e di là il fattore faranno l’altalena, e io nel mezzo a godere.

«Sarebbe forse meglio che cavassi dalla veneranda cassapanca di mia suocera uno dei vecchi abiti di Francesco Antonio Pescatore, che la vedova custodisce con la canfora e col pepe come sante reliquie, e ne vestissi Marianna Dondi e mandassi lei a fare il mugnajo e a star sopra al fattore.

«L’aria di campagna farebbe certamente bene a mia moglie. Forse a qualche albero cadranno le foglie, vedendola; gli uccelletti ammutoliranno; speriamo che non secchi la sorgiva. E io rimarrò bibliotecario, solo soletto, a Santa Maria Liberale.»

Così pensavo, e il treno intanto correva. Non potevo chiudere gli occhi, ché subito m’appariva con terribile precisione il cadavere di quel giovinetto, là, nel viale, piccolo e composto sotto i grandi alberi immobili nella fresca mattina. Dovevo perciò consolarmi così, con un altro incubo, non tanto sanguinoso, almeno materialmente: quello di mia suocera e di mia moglie. E godevo nel rappresentarmi la scena dell’arrivo, dopo quei tredici giorni di scomparsa misteriosa.

Ero certo (mi pareva di vederle!), che avrebbero affettato entrambe, al mio entrare, la più sdegnosa indifferenza. Appena un’occhiata, come per dire:

«To’, qua di nuovo? Non t’eri rotto l’osso del collo?»

Zitte loro, zitto io.

Ma poco dopo, senza dubbio, la vedova Pescatore avrebbe cominciato a sputar bile, rifacendosi dall’impiego che forse avevo perduto.

M’ero infatti portata via la chiave della biblioteca: alla notizia della mia sparizione, avevano dovuto certo scassinare la porta, per ordine della questura: e, non trovandomi là entro, morto, né avendosi d’altra parte tracce o notizie di me, quelli del Municipio avevano forse aspettato, tre, quattro, cinque giorni, una settimana, il mio ritorno; poi avevano dato a qualche altro sfaccendato il mio posto.

Dunque, che stavo a far lì, seduto? M’ero buttato di nuovo, da me, in mezzo a una strada? Ci stéssi! Due povere donne non potevano aver l’obbligo di mantenere un fannullone, un pezzaccio da galera, che scappava via così, chi sa per quali altre prodezze, ecc., ecc.

Io, zitto.

Man mano, la bile di Marianna Dondi cresceva, per quel mio silenzio dispettoso, cresceva, ribolliva, scoppiava: – e io, ancora lì, zitto!

A un certo punto, avrei cavato dalla tasca in petto il portafogli e mi sarei messo a contare sul tavolino i miei biglietti da mille: là, là, là e là…

Spalancamento d’occhi e di bocca di Marianna Dondi e anche di mia moglie.

Poi:

«– Dove li hai rubati?»

«– … settantasette, settantotto, settantanove, ottanta, ottantuno; cinquecento, seicento, settecento; dieci, venti, venticinque; ottantunmila settecento venticinque lire, e quaranta centesimi in tasca.»

Quietamente avrei raccolti i biglietti, li avrei rimessi nel portafogli, e mi sarei alzato.

«– Non mi volete più in casa? Ebbene, tante grazie! Me ne vado, e salute a voi.»

Ridevo, così pensando.

I miei compagni di viaggio mi osservavano e sorridevano anch’essi, sotto sotto.

Allora, per assumere un contegno più serio, mi mettevo a pensare a’ miei creditori, fra cui avrei dovuto dividere quei biglietti di banca. Nasconderli, non potevo. E poi, a che m’avrebbero servito, nascosti?

Godermeli, certo quei cani non me li avrebbero lasciati godere. Per rifarsi lì, col molino della Stìa e coi frutti del podere, dovendo pagare anche l’amministrazione, che si mangiava poi tutto a due palmenti (a due palmenti era anche il molino), chi sa quant’anni ancora avrebbero dovuto aspettare. Ora, forse, con un’offerta in contanti, me li sarei levati d’addosso a buon patto. E facevo il conto:

«Tanto a quella mosca canina del Recchioni; tanto, a Filippo Brìsigo, e mi piacerebbe che gli servissero per pagarsi il funerale: non caverebbe più sangue ai poverelli!; tanto a Cichin Lunaro, il torinese; tanto, alla vedova Lippani… Chi altro c’è? Ih! hai voglia! Il Della Piana, Bossi e Margottini… Ecco tutta la mia vincita!»

Avevo vinto per loro a Montecarlo, in fin dei conti! Che rabbia per que’ due giorni di perdita! Sarei stato ricco di nuovo… ricco!

Mettevo ora certi sospironi, che facevano voltare più dei sorrisi di prima i miei compagni di viaggio. Ma io non trovavo requie. Era imminente la sera: l’aria pareva di cenere; e l’uggia del viaggio era insopportabile.

Alla prima stazione italiana comprai un giornale con la speranza che mi facesse addormentare. Lo spiegai, e al lume del lampadino elettrico, mi misi a leggere. Ebbi così la consolazione di sapere che il castello di Valençay, messo all’incanto per la seconda volta, era stato aggiudicato al signor conte De Castellane per la somma di due milioni e trecentomila franchi. La tenuta attorno al castello era di duemila ottocento ettari: la più vasta di Francia.

«Press’a poco, come la Stìa…»

Lessi che l’imperatore di Germania aveva ricevuto a Potsdam, a mezzodì, l’ambasciata marocchina, e che al ricevimento aveva assistito il segretario di Stato, barone de Richtofen. La missione, presentata poi all’imperatrice, era stata trattenuta a colazione, e chi sa come aveva divorato!

Anche lo Zar e la Zarina di Russia avevano ricevuto a Peterhof una speciale missione tibetana, che aveva presentato alle LL. MM. i doni del Lama.

«I doni del Lama?» domandai a me stesso, chiudendo gli occhi, cogitabondo. «Che saranno?»

Papaveri: perché mi addormentai. Ma papaveri di scarsa virtù: mi ridestai, infatti, presto, a un urto del treno che si fermava a un’altra stazione.

Guardai l’orologio: eran le otto e un quarto. Fra un’oretta, dunque, sarei arrivato.

Avevo il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda pagina qualche dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi andarono su un SUICIDIO così, in grassetto.

Pensai subito che potesse esser quello di Montecarlo, e m’affrettai a leggere. Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo, stampato di minutissimo carattere: «Ci telegrafano da Miragno».

«Miragno? Chi si sarà suicidato nel mio paese?»

Lessi: «Jeri, sabato 28, è stato rinvenuto nella gora d’un mulino un cadavere in istato d’avanzata putrefazione…».

A un tratto, la vista mi s’annebbiò, sembrandomi di scorgere nel rigo seguente il nome del mio podere; e, siccome stentavo a leggere, con un occhio solo, quella stampa minuscola, m’alzai in piedi, per essere più vicino al lume.

«… putrefazione. Il molino è sito in un podere detto della Stìa, a circa due chilometri dalla nostra città. Accorsa sopra luogo l’autorità giudiziaria con altra gente, il cadavere fu estratto dalla gora per le constatazioni di legge e piantonato. Più tardi esso fu riconosciuto per quello del nostro…»

Il cuore mi balzò in gola e guardai, spiritato, i miei compagni di viaggio che dormivano tutti.

«Accorsa sopra luogo… estratto dalla gora… e piantonato… fu riconosciuto per quello del nostro bibliotecario…»

«Io?»

«Accorsa sopra luogo… più tardi… per quello del nostro bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi giorni. Causa del suicidio: dissesti finanziarii.»

«Io?.. Scomparso… riconosciuto… Mattia Pascal…»

Rilessi con piglio feroce e col cuore in tumulto non so più quante volte quelle poche righe. Nel primo impeto, tutte le mie energie vitali insorsero violentemente per protestare: come se quella notizia, così irritante nella sua impassibile laconicità, potesse anche per me esser vera. Ma, se non per me, era pur vera per gli altri; e la certezza che questi altri avevano fin da jeri della mia morte era su me come una insopportabile sopraffazione, permanente, schiacciante… Guardai di nuovo i miei compagni di viaggio e, quasi anch’essi, lì, sotto gli occhi miei, riposassero in quella certezza, ebbi la tentazione di scuoterli da quei loro scomodi e penosi atteggiamenti, scuoterli, svegliarli, per gridar loro che non era vero.

«Possibile?»

E rilessi ancora una volta la notizia sbalorditoja.

Non potevo più stare alle mosse. Avrei voluto che il treno s’arrestasse, avrei voluto che corresse a precipizio: quel suo andar monotono, da automa duro, sordo e greve, mi faceva crescere di punto in punto l’orgasmo. Aprivo e chiudevo le mani continuamente, affondandomi le unghie nelle palme; spiegazzavo il giornale; lo rimettevo in sesto per rilegger la notizia che già sapevo a memoria, parola per parola.

«Riconosciuto! Ma è possibile che m’abbiano riconosciuto?.. In istato d’avanzata putrefazione… puàh!»

Mi vidi per un momento, lì nell’acqua verdastra della gora, fradicio, gonfio, orribile, galleggiante… Nel raccapriccio istintivo, incrociai le braccia sul petto e con le mani mi palpai, mi strinsi:

«Io, no; io, no… Chi sarà stato?.. mi somigliava, certo… Avrà forse avuto la barba anche lui, come la mia… la mia stessa corporatura… E m’han riconosciuto!.. Scomparso da parecchi giorni… Eh già! Ma io vorrei sapere, vorrei sapere chi si è affrettato così a riconoscermi. Possibile che quel disgraziato là fosse tanto simile a me? vestito come me? tal quale? Ma sarà stata lei, forse, lei, Marianna Dondi, la vedova Pescatore: oh! m’ha pescato subito, m’ha riconosciuto subito! Non le sarà parso vero, figuriamoci! – È lui, è lui! mio genero! ah, povero Mattia! ah, povero figliuolo mio! – E si sarà messa a piangere fors’anche; si sarà pure inginocchiata accanto al cadavere di quel poveretto, che non ha potuto tirarle un calcio e gridarle: – Ma lèvati di qua: non ti conosco —.»

Fremevo. Finalmente il treno s’arrestò a un’altra stazione. Aprii lo sportello e mi precipitai giù, con l’idea confusa di fare qualche cosa, subito: un telegramma d’urgenza per smentire quella notizia.

Il salto che spiccai dal vagone mi salvò: come se mi avesse scosso dal cervello quella stupida fissazione, intravidi in un baleno… ma sì! la mia liberazione la libertà una vita nuova!

Avevo con me ottantaduemila lire, e non avrei più dovuto darle a nessuno! Ero morto, ero morto: non avevo più debiti, non avevo più moglie, non avevo più suocera: nessuno! libero! libero! libero! Che cercavo di più?

Pensando così, dovevo esser rimasto in un atteggiamento stranissimo, là su la banchina di quella stazione. Avevo lasciato aperto lo sportello del vagone. Mi vidi attorno parecchia gente, che mi gridava non so che cosa; uno, infine, mi scosse e mi spinse, gridandomi più forte:

– Il treno riparte!

– Ma lo lasci, lo lasci ripartire, caro signore! – gli gridai io, a mia volta. – Cambio treno!

Mi aveva ora assalito un dubbio: il dubbio se quella notizia fosse già stata smentita; se già si fosse riconosciuto l’errore, a Miragno; se fossero saltati fuori i parenti del vero morto a correggere la falsa identificazione.

Prima di rallegrarmi così, dovevo bene accertarmi, aver notizie precise e particolareggiate. Ma come procurarmele?

Mi cercai nelle tasche il giornale. Lo avevo lasciato in treno. Mi voltai a guardare il binario deserto, che si snodava lucido per un tratto nella notte silenziosa, e mi sentii come smarrito, nel vuoto, in quella misera stazionuccia di passaggio. Un dubbio più forte mi assalì, allora: che io avessi sognato?

Ma no:

«Ci telegrafano da Miragno. Jeri, sabato 28…»

Ecco: potevo ripetere a memoria, parola per parola, il telegramma. Non c’era dubbio! Tuttavia, sì, era troppo poco; non poteva bastarmi.

Guardai la stazione; lessi il nome: ALENGA.

Avrei trovato in quel paese altri giornali? Mi sovvenne che era domenica. A Miragno, dunque, quella mattina, era uscito Il Foglietto, l’unico giornale che vi si stampasse. A tutti i costi dovevo procurarmene una copia. Lì avrei trovato tutte le notizie particolareggiate che m’abbisognavano. Ma come sperare di trovare ad Alenga Il Foglietto? Ebbene: avrei telegrafato sotto un falso nome alla redazione del giornale. Conoscevo il direttore, Miro Colzi, Lodoletta come tutti lo chiamavano a Miragno, da quando, giovinetto, aveva pubblicato con questo titolo gentile il suo primo e ultimo volume di versi. Per Lodoletta però non sarebbe stato un avvenimento quella richiesta di copie del suo giornale da Alenga? Certo la notizia più «interessante» di quella settimana, e perciò il pezzo più forte di quel numero, doveva essere il mio suicidio. E non mi sarei dunque esposto al rischio che la richiesta insolita facesse nascere in lui qualche sospetto?

«Ma che!» pensai poi. «A Lodoletta non può venire in mente ch’io non mi sia affogato davvero. Cercherà la ragione della richiesta in qualche altro pezzo forte del suo numero d’oggi. Da tempo combatte strenuamente contro il Municipio per la conduttura dell’acqua e per l’impianto del gas. Crederà piuttosto che sia per questa sua “campagna”.»

Entrai nella stazione.

Per fortuna, il vetturino dell’unico legnetto, quello de la posta, stava ancora lì a chiacchierare con gl’impiegati ferroviarii: il paesello era a circa tre quarti d’ora di carrozza dalla stazione, e la via era tutta in salita. Montai su quel decrepito calessino sgangherato, senza fanali; e via nel buio.

Avevo da pensare a tante cose; pure, di tratto in tratto, la violenta impressione ricevuta alla lettura di quella notizia che mi riguardava così da vicino mi si ridestava in quella nera, ignota solitudine, e mi sentivo, allora, per un attimo, nel vuoto, come poc’anzi alla vista del binario deserto; mi sentivo paurosamente sciolto dalla vita, superstite di me stesso, sperduto, in attesa di vivere oltre la morte, senza intravedere ancora in qual modo.

Domandai, per distrarmi, al vetturino, se ci fosse ad Alenga un’agenzia giornalistica:

– Come dice? Nossignore!

– Non si vendono giornali ad Alenga?

– Ah! sissignore. Li vende il farmacista, Grottanelli.

– C’è un albergo?

– C’è la locanda del Palmentino.

Era smontato da cassetta per alleggerire un po’ la vecchia rozza che soffiava con le froge a terra. Lo discernevo appena. A un certo punto accese la pipa e lo vidi, allora, come a sbalzi, e pensai: «Se egli sapesse chi porta…».

Ma ritorsi subito a me stesso la domanda:

«Chi porta? Non lo so più nemmeno io. Chi sono io ora? Bisogna che ci pensi. Un nome, almeno, un nome, bisogna che me lo dia subito, per firmare il telegramma e per non trovarmi poi imbarazzato se, alla locanda, me lo domandano. Basterà che pensi soltanto al nome, per adesso. Vediamo un po’! Come mi chiamo?»

Non avrei mai supposto che dovesse costarmi tanto stento e destarmi tanta smania la scelta di un nome e di un cognome. Il cognome specialmente! Accozzavo sillabe, così, senza pensare: venivano fuori certi cognomi, come: Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi, che m’irritavano peggio i nervi. Non vi trovavo alcuna proprietà, alcun senso. Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne… Eh, via! uno qualunque… Martoni, per esempio, perché no? Carlo Martoni… Uh, ecco fatto! Ma, poco dopo, davo una spallata: «Sì! Carlo Martello…». E la smania ricominciava.

Giunsi al paese, senza averne fissato alcuno. Fortunatamente, là, dal farmacista, ch’era anche ufficiale telegrafico e postale, droghiere, cartolajo, giornalajo, bestia e non so che altro, non ce ne fu bisogno. Comprai una copia dei pochi giornali che gli arrivavano: giornali di Genova: Il Caffaro e Il Secolo XIX; gli domandai poi se potevo avere Il Foglietto di Miragno.

Aveva una faccia da civetta, questo Grottanelli con un pajo d’occhi tondi tondi, come di vetro, su cui abbassava, di tratto in tratto, quasi con pena, certe pàlpebre cartilaginose.

– Il Foglietto? Non lo conosco.

– È un giornaluccio di provincia, settimanale, – gli spiegai.

– Vorrei averlo. Il numero d’oggi, s’intende.

– Il Foglietto? Non lo conosco – badava a ripetere.

– E va bene! Non importa che lei non lo conosca: io le pago le spese per un vaglia telegrafico alla redazione. Ne vorrei avere dieci, venti copie, domani o al più presto. Si può?

Non rispondeva: con gli occhi fissi, senza sguardo, ripeteva ancora: – Il Foglietto?.. Non lo conosco –. Finalmente si risolse a fare il vaglia telegrafico sotto la mia dettatura, indicando per il recapito la sua farmacia.

E il giorno appresso, dopo una notte insonne, sconvolta da un tempestoso mareggiamento di pensieri, là nella Locanda del Palmentino, ricevetti quindici copie del Foglietto.

Nei due giornali di Genova che, appena rimasto solo, m’ero affrettato a leggere, non avevo trovato alcun cenno. Mi tremavano le mani nello spiegare Il Foglietto. In prima pagina, nulla. Cercai nelle due interne, e subito mi saltò a gli occhi un segno di lutto in capo alla terza pagina e, sotto, a grosse lettere, il mio nome. Così:

MATTIA PASCAL

Non si avevano notizie di lui da alquanti giorni: giorni di tremenda costernazione e d’inenarrabile angoscia per la desolata famiglia; costernazione e angoscia condivise dalla miglior parte della nostra cittadinanza, che lo amava e lo stimava per la bontà dell’animo, per la giovialità del carattere e per quella natural modestia, che gli aveva permesso, insieme con le altre doti, di sopportare senza avvilimento e con rassegnazione gli avversi fati, onde dalla spensierata agiatezza si era in questi ultimi tempi ridotto in umile stato.

Quando, dopo il primo giorno dell’inesplicabile assenza, la famiglia impressionata si recò alla Biblioteca Boccamazza, dove egli, zelantissimo del suo ufficio, si tratteneva quasi tutto il giorno ad arricchire con dotte letture la sua vivace intelligenza, trovò chiusa la porta; subito, innanti a questa porta chiusa, sorse nero e trepidante il sospetto, sospetto tosto fugato dalla lusinga che durò parecchi dì, man mano però raffievolendosi, ch’egli si fosse allontanato dal paese per qualche sua segreta ragione.

Ma ahimè! La verità doveva purtroppo esser quella!

La perdita recente della madre adoratissima e, a un tempo, dell’unica figlioletta, dopo la perdita degli aviti beni, aveva profondamente sconvolto l’animo del povero amico nostro. Tanto che, circa tre mesi addietro, già una prima volta, di notte tempo, egli aveva tentato di pôr fine a’ suoi miseri giorni, là, nella gora appunto di quel molino, che gli ricordava i passati splendori della sua casa ed il suo tempo felice.

 

…Nessun maggior dolore

Che ricordarsi del tempo felice

Nella miseria…

 

Con le lacrime agli occhi e singhiozzando cel narrava, innanzi al grondante e disfatto cadavere, un vecchio mugnajo, fedele e devoto alla famiglia degli antichi padroni. Era calata la notte, lugubre; una lucerna rossa era stata deposta lì per terra, presso al cadavere vigilato da due Reali Carabinieri e il vecchio Filippo Brina (lo segnaliamo all’ammirazione dei buoni) parlava e lagrimava con noi. Egli era riuscito in quella triste notte a impedire che l’infelice riducesse ad effetto il violento proposito; ma non si trovò più là Filippo Brina pronto ad impedirlo, questa seconda volta. E Mattia Pascal giacque, forse tutta una notte e metà del giorno appresso, nella gora di quel molino.

Non tentiamo nemmeno di descrivere la straziante scena che seguì sul luogo, quando l’altro ieri, in sul far della sera, la vedova sconsolata si trovò innanzi alla miseranda spoglia irriconoscibile del diletto compagno, che era andato a raggiungere la figlioletta sua.

Tutto il paese ha preso parte al cordoglio di lei e ha voluto dimostrarlo accompagnando all’estrema dimora il cadavere, a cui rivolse brevi e commosse parole d’addio il nostro assessore comunale cav. Pomino.

Noi inviamo alla povera famiglia immersa in tanto lutto, al fratello Roberto lontano da Miragno, le nostre più sentite condoglianze, e col cuore lacerato diciamo per l’ultima volta al nostro buon Mattia: – Vale, diletto amico, vale!

M. C.

Anche senza queste due iniziali avrei riconosciuto Lodoletta come autore della necrologia.

Ma debbo innanzi tutto confessare che la vista del mio nome stampato lì, sotto quella striscia nera, per quanto me l’aspettassi, non solo non mi rallegrò affatto, ma mi accelerò talmente i battiti del cuore, che, dopo alcune righe, dovetti interrompere la lettura. La «tremenda costernazione e l’inenarrabile angoscia» della mia famiglia non mi fecero ridere, né l’amore e la stima dei miei concittadini per le mie belle virtù, né il mio zelo per l’ufficio. Il ricordo di quella mia tristissima notte alla Stìa, dopo la morte della mamma e della mia piccina, ch’era stato come una prova, e forse la più forte, del mio suicidio, mi sorprese dapprima, quale una impreveduta e sinistra partecipazione del caso; poi mi cagionò rimorso e avvilimento.

Eh, no! non mi ero ucciso, io, per la morte della mamma e della figlietta mia, per quanto forse, quella notte, ne avessi avuto l’idea! Me n’ero fuggito, è vero, disperatamente; ma, ecco, ritornavo ora da una casa di giuoco, dove la Fortuna nel modo più strano mi aveva arriso e continuava ad arridermi; e un altro, invece, s’era ucciso per me, un altro, un forestiere certo, cui io rubavo il compianto dei parenti lontani e degli amici, e condannavo – oh suprema irrisione! – a subir quello che non gli apparteneva, falso compianto, e finanche l’elogio funebre dell’incipriato cavalier Pomino!

Questa fu la prima impressione alla lettura di quella mia necrologia sul Foglietto.

Ma poi pensai che quel pover’uomo era morto non certo per causa mia, e che io, facendomi vivo, non avrei potuto far rivivere anche lui; pensai che, approfittandomi della sua morte, io non solo non frodavo affatto i suoi parenti, ma anzi venivo a render loro un bene: per essi, infatti, il morto ero io, non lui, ed essi potevano crederlo scomparso e sperare ancora, sperare di vederlo un giorno o l’altro ricomparire.

Restavano mia moglie e mia suocera. Dovevo proprio credere alla loro pena per la mia morte, a tutta quella «inenarrabile angoscia», a quel «cordoglio straziante» del funebre pezzo forte di Lodoletta? Bastava, perbacco, aprir pian piano un occhio a quel povero morto, per accorgersi che non ero io; e anche ammesso che gli occhi fossero rimasti in fondo alla gora, via! una moglie, che veramente non voglia, non può scambiare così facilmente un altro uomo per il proprio marito.

Si erano affrettate a riconoscermi in quel morto? La vedova Pescatore sperava ora che Malagna, commosso e forse non esente di rimorso per quel mio barbaro suicidio, venisse in ajuto della povera vedova? Ebbene: contente loro, contentissimo io!

«Morto? affogato? Una croce, e non se ne parli più!»

Mi levai, stirai le braccia e trassi un lunghissimo respiro di sollievo.

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