La strega non si sapeva dar pace:
– Che hai concluso? – mi domandava. – Non t’era bastato, di’, esserti introdotto in casa mia come un ladro per insidiarmi la figliuola e rovinarmela? Non t’era bastato?
– Eh no, cara suocera! – le rispondevo. – Perché, se mi fossi arrestato lì vi avrei fatto un piacere, reso un servizio…
– Lo senti? – strillava allora alla figlia. – Si vanta, osa vantarsi per giunta della bella prodezza che è andato a commettere con quella… – e qui una filza di laide parole all’indirizzo di Oliva;
poi, arrovesciando le mani su i fianchi, appuntando le gomita davanti: – Ma che hai concluso? Non hai rovinato anche tuo figlio, così? Ma già, a lui, che glien’importa? È suo anche quello, è suo…
Non mancava mai di schizzare in fine questo veleno, sapendo la virtù ch’esso aveva sull’animo di Romilda, gelosa di quel figlio che sarebbe nato a Oliva, tra gli agi e in letizia; mentre il suo, nell’angustia, nell’incertezza del domani, e fra tutta quella guerra. Le facevano crescere questa gelosia anche le notizie che qualche buona donna, fingendo di non saper nulla, veniva a recarle della zia Malagna, ch’era così contenta, così felice della grazia che Dio finalmente aveva voluto concederle: ah, si era fatta un fiore; non era stata mai così bella e prosperosa!
E lei, intanto, ecco: buttata lì su una poltrona, rivoltata da continue nausee; pallida, disfatta, imbruttita, senza più un momento di bene, senza più voglia neanche di parlare o d’aprir gli occhi.
Colpa mia anche questa? Pareva di sì. Non mi poteva più né vedere né sentire. E fu peggio, quando per salvare il podere della Stìa, col molino, si dovettero vendere le case, e la povera mamma fu costretta a entrar nell’inferno di casa mia.
Già, quella vendita non giovò a nulla. Il Malagna, con quel figlio nascituro, che lo abilitava ormai a non aver più né ritegno né scrupolo, fece l’ultima: si mise d’accordo con gli strozzini, e comprò lui, senza figurare, le case, per pochi bajocchi. I debiti che gravavano su la Stìa restarono così per la maggior parte scoperti; e il podere insieme col molino fu messo dai creditori sotto amministrazione giudiziaria. E fummo liquidati.
Che fare ormai? Mi misi, ma quasi senza speranza, in cerca di un’occupazione qual si fosse, per provvedere ai bisogni più urgenti della famiglia. Ero inetto a tutto; e la fama che m’ero fatta con le mie imprese giovanili e con la mia scioperataggine non invogliava certo nessuno a darmi da lavorare. Le scene poi, a cui giornalmente mi toccava d’assistere e di prender parte in casa mia, mi toglievano quella calma che mi abbisognava per raccogliermi un po’ a considerare ciò che avrei potuto e saputo fare.
Mi cagionava un vero e proprio ribrezzo il veder mia madre, lì, in contatto con la vedova Pescatore. La santa vecchietta mia, non più ignara, ma agli occhi miei irresponsabile de’ suoi torti, dipesi dal non aver saputo credere fino a tanto alla nequizia degli uomini, se ne stava tutta ristretta in sé, con le mani in grembo, gli occhi bassi, seduta in un cantuccio, ma come se non fosse ben sicura di poterci stare, lì a quel posto; come se fosse sempre in attesa di partire, di partire fra poco – se Dio voleva! E non dava fastidio neanche all’aria. Sorrideva ogni tanto a Romilda, pietosamente;
non osava più di accostarsele; perché, una volta, pochi giorni dopo la sua entrata in casa nostra, essendo accorsa a prestarle ajuto, era stata sgarbatamente allontanata da quella strega.
– Faccio io, faccio io; so quel che debbo fare.
Per prudenza, avendo Romilda veramente bisogno d’ajuto in quel momento, m’ero stato zitto; ma spiavo perché nessuno le mancasse di rispetto.
M’accorgevo intanto che questa guardia ch’io facevo a mia madre irritava sordamente la strega e anche mia moglie, e temevo che, quand’io non fossi in casa, esse, per sfogar la stizza e votarsi il cuore della bile, la maltrattassero. Sapevo di certo che la mamma non mi avrebbe detto mai nulla. E questo pensiero mi torturava. Quante, quante volte non le guardai gli occhi per vedere se avesse pianto! Ella mi sorrideva, mi carezzava con lo sguardo, poi mi domandava:
– Perché mi guardi così?
– Stai bene, mamma?
Mi faceva un atto appena appena con la mano e mi rispondeva:
– Bene; non vedi? Va’ da tua moglie, va’; soffre, poverina.
Pensai di scrivere a Roberto, a Oneglia, per dirgli che si prendesse lui in casa la mamma, non per togliermi un peso che avrei tanto volentieri sopportato anche nelle ristrettezze in cui mi trovavo, ma per il bene di lei unicamente.
Berto mi rispose che non poteva; non poteva perché la sua condizione di fronte alla famiglia della moglie e alla moglie stessa era penosissima, dopo il nostro rovescio: egli viveva ormai su la dote della moglie, e non avrebbe dunque potuto imporre a questa anche il peso della suocera. Del resto, la mamma – diceva – si sarebbe forse trovata male allo stesso modo in casa sua, perché anche egli conviveva con la madre della moglie, buona donna, sì, ma che poteva diventar cattiva per le inevitabili gelosie e gli attriti che nascono tra suocere. Era dunque meglio che la mamma rimanesse a casa mia; se non altro, non si sarebbe così allontanata negli ultimi anni dal suo paese e non sarebbe stata costretta a cangiar vita e abitudini. Si dichiarava infine dolentissimo di non potere, per tutte le considerazioni esposte più sù, prestarmi un anche menomo soccorso pecuniario, come con tutto il cuore avrebbe voluto.
Io nascosi questa lettera alla mamma. Forse se l’animo esasperato in quel momento non mi avesse offuscato il giudizio, non me ne sarei tanto indignato; avrei considerato, per esempio, secondo la natural disposizione del mio spirito, che se un rosignolo dà via le penne della coda, può dire: mi resta il dono del canto; ma se le fate dar via a un pavone, le penne della coda, che gli resta? Rompere anche per poco l’equilibrio che forse gli costava tanto studio, l’equilibrio per cui poteva vivere pulitamente e fors’anche con una cert’aria di dignità alle spalle della moglie, sarebbe stato per Berto sacrifizio enorme, una perdita irreparabile. Oltre alla bella presenza, alle garbate maniere, a quella sua impostatura d’elegante signore, non aveva più nulla, lui, da dare alla moglie;
neppure un briciolo di cuore, che forse l’avrebbe compensata del fastidio che avrebbe potuto recarle la povera mamma mia. Mah! Dio l’aveva fatto così; gliene aveva dato pochino pochino, di cuore. Che poteva farci, povero Berto?
Intanto le angustie crescevano; e io non trovavo da porvi riparo. Furon venduti gli ori della mamma, cari ricordi. La vedova Pescatore, temendo che io e mia madre fra poco dovessimo anche vivere sulla sua rendituccia dotale di quarantadue lire mensili, diventava di giorno in giorno più cupa e di più fosche maniere. Prevedevo da un momento all’altro un prorompimento del suo furore, contenuto ormai da troppo tempo, forse per la presenza e per il contegno della mamma. Nel vedermi aggirar per casa come una mosca senza capo, quella bufera di femmina mi lanciava certe occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Uscivo per levar la corrente e impedire la scarica. Ma poi temevo per la mamma, e rincasavo.
Un giorno, però, non feci a tempo. La tempesta, finalmente, era scoppiata, e per un futilissimo pretesto: per una visita delle due vecchie serve alla mamma.
Una di esse, non avendo potuto metter nulla da parte, perché aveva dovuto mantenere una figlia rimasta vedova con tre bambini, s’era subito allogata altrove a servire; ma l’altra, Margherita, sola al mondo, più fortunata, poteva ora riposar la sua vecchiaja, col gruzzoletto raccolto in tanti anni di servizio in casa nostra. Ora pare che con queste due buone donne, già fidate compagne di tanti anni, la mamma si fosse pian piano rammaricata di quel suo misero e amarissimo stato. Subito allora Margherita, la buona vecchierella che già l’aveva sospettato e non osava dirglielo, le aveva profferto d’andar via con lei, a casa sua: aveva due camerette pulite, con un terrazzino che guardava il mare, pieno di fiori: sarebbero state insieme, in pace: oh, ella sarebbe stata felice di poterla ancora servire, di poterle dimostrare ancora l’affetto e la devozione che sentiva per lei.
Ma poteva accettar mia madre la profferta di quella povera vecchia? Donde l’ira della vedova Pescatore.
Io la trovai, rincasando, con le pugna protese contro Margherita, la quale pur le teneva testa coraggiosamente, mentre la mamma, spaventata, con le lagrime agli occhi, tutta tremante, si teneva aggrappata con ambo le mani all’altra vecchietta, come per ripararsi.
Veder mia madre in quell’atteggiamento e perdere il lume degli occhi fu tutt’uno. Afferrai per un braccio la vedova Pescatore e la mandai a ruzzolar lontano. Ella si rizzò in un lampo e mi venne incontro, per saltarmi addosso; ma s’arrestò di fronte a me.
– Fuori! – mi gridò. – Tu e tua madre, via! Fuori di casa mia!
– Senti; – le dissi io allora, con la voce che mi tremava dal violento sforzo che facevo su me stesso, per contenermi. – Senti: vattene via tu, or ora, con le tue gambe, e non cimentarmi più. Vattene, per il tuo bene! Vattene!
Romilda, piangendo e gridando, si levò dalla poltrona e venne a buttarsi tra le braccia della madre:
– No! Tu con me, mamma! Non mi lasciare, non mi lasciare qua sola!
Ma quella degna madre la respinse, furibonda:
– L’hai voluto? tientelo ora, codesto mal ladrone! Io vado sola!
Ma non se ne andò, s’intende.
Due giorni dopo, mandata – suppongo – da Margherita, venne in gran furia, al solito, zia Scolastica, per portarsi via con sé la mamma.
Questa scena merita di essere rappresentata.
La vedova Pescatore stava, quella mattina, a fare il pane, sbracciata, con la gonnella tirata sù e arrotolata intorno alla vita, per non sporcarsela. Si voltò appena, vedendo entrare la zia, e seguitò ad abburattare, come se nulla fosse. La zia non ci fece caso; del resto, ella era entrata senza salutar nessuno; diviata a mia madre, come se in quella casa non ci fosse altri che lei.
– Subito, via vèstiti! Verrai con me. Mi fu sonata non so che campana. Eccomi qua. Via, presto! il fagottino!
Parlava a scatti. Il naso adunco, fiero, nella faccia bruna, itterica, le fremeva, le si arricciava di tratto in tratto, e gli occhi le sfavillavano.
La vedova Pescatore, zitta.
Finito di abburattare, intrisa la farina e coagulatala in pasta, ora essa la brandiva alta e la sbatteva forte apposta, su la madia: rispondeva così a quel che diceva la zia. Questa, allora, rincarò la dose. E quella, sbattendo man mano più forte: «Ma sì! – ma certo! – ma come no? – ma sicuramente!»; poi, come se non bastasse, andò a prendere il matterello e se lo pose lì accanto, su la madia, come per dire: ci ho anche questo.
Non l’avesse mai fatto! Zia Scolastica scattò in piedi, si tolse furiosamente lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia madre:
– Eccoti! lascia tutto. Via subito!
E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. Questa, per non averla così dinanzi a petto, si tirò un passo indietro, minacciosa, come volesse brandire il matterello; e allora zia Scolastica, preso a due mani dalla madia il grosso batuffolo della pasta, gliel’appiastrò sul capo, glielo tirò giù su la faccia e, a pugni chiusi, là, là, là, sul naso, sugli occhi, in bocca, dove coglieva coglieva. Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via.
Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo, ridevo in una specie di convulsione; m’afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul pavimento; mia moglie intanto (sit venia verbo) receva di là, tra acutissime strida, mentr’io:
– Le gambe! le gambe! – gridavo alla vedova Pescatore per terra. – Non mi mostrate le gambe, per carità!
Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che… lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me.
Dal dispetto rabbioso che sentivo in quel momento per la sventatezza mia di tanti anni, argomentavo però facilmente che la mia sciagura non poteva ispirare a nessuno, non che compatimento, ma neppur considerazione. Me l’ero ben meritata. Uno solo avrebbe potuto averne pietà: colui che aveva fatto man bassa d’ogni nostro avere; ma figurarsi se Malagna poteva più sentir l’obbligo di venirmi in soccorso dopo quanto era avvenuto tra me e lui.
Il soccorso, invece, mi venne da chi meno avrei potuto aspettarmelo.
Rimasto tutto quel giorno fuori di casa, verso sera, m’imbattei per combinazione in Pomino, che, fingendo di non accorgersi di me, voleva tirar via di lungo.
– Pomino!
Si volse, torbido in faccia, e si fermò con gli occhi bassi:
– Che vuoi?
– Pomino! – ripetei io più forte, scotendolo per una spalla e ridendo di quella sua mutria. – Dici sul serio?
Oh, ingratitudine umana! Me ne voleva, per giunta, me ne voleva, Pomino, del tradimento che, a suo credere, gli avevo fatto. Né mi riuscì di convincerlo che il tradimento invece lo aveva fatto lui a me, e che avrebbe dovuto non solo ringraziarmi, ma buttarsi anche a faccia per terra, a baciare dove io ponevo i piedi.
Ero ancora com’ebbro di quella gajezza mala che si era impadronita di me da quando m’ero guardato allo specchio.
– Vedi questi sgraffii? – gli dissi, a un certo punto. – Lei me li ha fatti!
– Ro… cioè, tua moglie?
– Sua madre!
E gli narrai come e perché. Sorrise, ma parcamente. Forse pensò che a lui non li avrebbe fatti, quegli sgraffii, la vedova Pescatore: era in ben altra condizione dalla mia, e aveva altra indole e altro cuore, lui.
Mi venne allora la tentazione di domandargli perché dunque, se veramente n’era così addogliato, non l’aveva sposata lui, Romilda, a tempo, magari prendendo il volo con lei, com’io gli avevo consigliato, prima che, per la sua ridicola timidezza o per la sua indecisione, fosse capitata a me la disgrazia d’innamorarmene; e altro, ben altro avrei voluto dirgli, nell’orgasmo in cui mi trovavo; ma mi trattenni. Gli domandai, invece, porgendogli la mano, con chi se la facesse, di quei giorni.
– Con nessuno! – sospirò egli allora. – Con nessuno! Mi annojo, mi annojo mortalmente!
Dall’esasperazione con cui proferì queste parole mi parve d’intendere a un tratto la vera ragione per cui Pomino era così addogliato. Ecco qua: non tanto Romilda egli forse rimpiangeva, quanto la compagnia che gli era venuta a mancare; Berto non c’era più; con me non poteva più praticare, perché c’era Romilda di mezzo, e che restava più dunque da fare al povero Pomino?
– Ammógliati, caro! – gli dissi. – Vedrai come si sta allegri! Ma egli scosse il capo, seriamente, con gli occhi chiusi; alzò una mano:
– Mai! mai più!
– Bravo, Pomino: persèvera! Se desideri compagnia, sono a tua disposizione, anche per tutta la notte, se vuoi.
E gli manifestai il proponimento che avevo fatto, uscendo di casa, e gli esposi anche le disperate condizioni in cui mi trovavo. Pomino si commosse, da vero amico, e mi profferse quel po’ di denaro che aveva con sé. Lo ringraziai di cuore, e gli dissi che quell’aiuto non m’avrebbe giovato a nulla: il giorno appresso sarei stato da capo. Un collocamento fisso m’abbisognava.
– Aspetta! – esclamò allora Pomino. – Sai che mio padre è ora al Municipio?
– No. Ma me l’immagino.
– Assessore comunale per la pubblica istruzione.
– Questo non me lo sarei immaginato.
– Jersera, a cena… Aspetta! Conosci Romitelli?
– No.
– Come no! Quello che sta laggiù, alla biblioteca Boccamazza. È sordo, quasi cieco, rimbecillito, e non si regge più sulle gambe. Jersera, a cena, mio padre mi diceva che la biblioteca è ridotta in uno stato miserevole e che bisogna provvedere con la massima sollecitudine. Ecco il posto per te!
– Bibliotecario? – esclamai. – Ma io…
– Perché no? – disse Pomino. – Se l’ha fatto Romitelli…
Questa ragione mi convinse.
Pomino mi consigliò di farne parlare a suo padre da zia Scolastica. Sarebbe stato meglio.
Il giorno appresso, io mi recai a visitar la mamma e ne parlai a lei, poiché zia Scolastica, da me, non volle farsi vedere. E così, quattro giorni dopo, diventai bibliotecario. Sessanta lire al mese. Più ricco della vedova Pescatore! Potevo cantar vittoria.
Nei primi mesi fu un divertimento, con quel Romitelli, a cui non ci fu verso di fare intendere che era stato giubilato dal Comune e che per ciò non doveva più venire alla biblioteca. Ogni mattina, alla stess’ora, né un minuto prima né un minuto dopo, me lo vedevo spuntare a quattro piedi (compresi i due bastoni, uno per mano, che gli servivano meglio dei piedi). Appena arrivato, si toglieva dal taschino del panciotto un vecchio cipollone di rame, e lo appendeva a muro con tutta la formidabile catena; sedeva, coi due bastoni fra le gambe, traeva di tasca la papalina, la tabacchiera e un pezzolone a dadi rossi e neri; s’infrociava una grossa presa di tabacco, si puliva, poi apriva il cassetto del tavolino e ne traeva un libraccio che apparteneva alla biblioteca: Dizionario storico dei musicisti, artisti e amatori morti e viventi, stampato a Venezia nel 1758.
– Signor Romitelli! – gli gridavo, vedendogli fare tutte queste operazioni, tranquillissimamente, senza dare il minimo segno d’accorgersi di me.
Ma a chi dicevo? Non sentiva neanche le cannonate. Lo scotevo per un braccio, ed egli allora si voltava, strizzava gli occhi, contraeva tutta la faccia per sbirciarmi, poi mi mostrava i denti gialli, forse intendendo di sorridermi, così; quindi abbassava il capo sul libro, come se volesse farsene guanciale; ma che! leggeva a quel modo, a due centimetri di distanza, con un occhio solo; leggeva forte:
– Birnbaum, Giovanni Abramo… Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare… Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare a Lipsia, nel 1738… a Lipsia nel 1738… un opuscolo in-8°… in-8°: Osservazioni imparziali su un passo delicato del Musicista critico. Mitzler… Mitzler inserì… Mitzler inserì questo scritto nel primo volume della sua Biblioteca musicale. Nel 1739…
E seguitava così, ripetendo due o tre volte nomi e date, come per cacciarsele a memoria. Perché leggesse così forte, non saprei. Ripeto, non sentiva neanche le cannonate.
Io stavo a guardarlo, stupito. O che poteva importare a quell’uomo, ridotto in quello stato, a due passi ormai dalla tomba (morì difatti quattro mesi dopo la mia nomina a bibliotecario), che poteva importargli che Birnbaum Giovanni Abramo avesse fatto stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in-8°? E non gli fosse almeno costata tutto quello stento la lettura! Bisognava proprio riconoscere che non potesse farne a meno di quelle date lì e di quelle notizie di musicisti (lui, così sordo!) e artisti e amatori, morti e viventi fino al 1758. O credeva forse che un bibliotecario, essendo la biblioteca fatta per leggervi, fosse obbligato a legger lui, posto che non aveva veduto mai apparirvi anima viva; e aveva preso quel libro, come avrebbe potuto prenderne un altro? Era tanto imbecillito, che anche questa supposizione è possibile, e anzi molto più probabile della prima.
Intanto, sul tavolone lì in mezzo, c’era uno strato di polvere alto per lo meno un dito; tanto che io – per riparare in certo qual modo alla nera ingratitudine de’ miei concittadini – potei tracciarvi a grosse lettere questa iscrizione:
Precipitavano poi, a quando a quando, dagli scaffali due o tre libri, seguiti da certi topi grossi quanto un coniglio.
Furono per me come la mela di Newton.
– Ho trovato! – esclamai, tutto contento. – Ecco l’occupazione per me, mentre Romitelli legge il suo Birnbaum.
E, per cominciare, scrissi una elaboratissima istanza, d’ufficio, all’esimio cavalier Gerolamo Pomino, assessore comunale per la pubblica istruzione, affinché la biblioteca Boccamazza o di Santa Maria Liberale fosse con la maggior sollecitudine provveduta di un pajo di gatti per lo meno, il cui mantenimento non avrebbe importato quasi alcuna spesa al Comune, atteso che i suddetti animali avrebbero avuto da nutrirsi in abbondanza col provento della loro caccia. Soggiungevo che non sarebbe stato male provvedere altresì la biblioteca d’una mezza dozzina di trappole e dell’esca necessaria, per non dire cacio, parola volgare, che – da subalterno – non stimai conveniente sottoporre agli occhi d’un assessore comunale per la pubblica istruzione.
Mi mandarono dapprima due gattini così miseri che si spaventarono subito di quegli enormi topi, e – per non morir di fame – si ficcavano loro nelle trappole, a mangiarsi il cacio. Li trovavo ogni mattina là, imprigionati, magri, brutti, e così afflitti che pareva non avessero più né forza né volontà di miagolare.
Reclamai, e vennero due bei gattoni lesti e serii, che senza perder tempo si misero a fare il loro dovere. Anche le trappole servivano: e queste me li davan vivi, i topi. Ora, una sera, indispettito che di quelle mie fatiche e di quelle mie vittorie il Romitelli non si volesse minimamente dar per inteso, come se lui avesse soltanto l’obbligo di leggere e i topi quello di mangiarsi i libri della biblioteca, volli, prima d’andarmene, cacciarne due, vivi, entro il cassetto del suo tavolino. Speravo di sconcertargli, almeno per la mattina seguente, la consueta nojosissima lettura. Ma che! Come aprì il cassetto e si sentì sgusciare sotto il naso quelle due bestie, si voltò verso me, che già non mi potevo più reggere e davo in uno scoppio di risa, e mi domandò:
– Che è stato?
– Due topi, signor Romitelli!
– Ah, topi… – fece lui tranquillamente.
Erano di casa; c’era avvezzo; e riprese, come se nulla fosse stato, la lettura del suo libraccio.
In un Trattato degli Arbori di Giovan Vittorio Soderini si legge che i frutti maturano «parte per caldezza e parte per freddezza; perciocché il calore, come in tutti è manifesto, ottiene la forza del concuocere, ed è la semplice cagione della maturezza». Ignorava dunque Giovan Vittorio Soderini che oltre al calore, i fruttivendoli hanno sperimentato un’altra cagione della maturezza. Per portare la primizia al mercato e venderla più cara, essi colgono i frutti, mele e pesche e pere, prima che sian venuti a quella condizione che li rende sani e piacevoli, e li maturano loro a furia d’ammaccature.
Ora così venne a maturazione l’anima mia, ancora acerba.
In poco tempo, divenni un altro da quel che ero prima. Morto il Romitelli, mi trovai qui solo, mangiato dalla noja, in questa chiesetta fuori mano, fra tutti questi libri; tremendamente solo, e pur senza voglia di compagnia. Avrei potuto trattenermici soltanto poche ore al giorno; ma per le strade del paese mi vergognavo di farmi vedere, così ridotto in miseria; da casa mia rifuggivo come da una prigione; e dunque, meglio qua, mi ripetevo. Ma che fare? La caccia ai topi, sì; ma poteva bastarmi?
La prima volta che mi avvenne di trovarmi con un libro tra le mani, tolto così a caso, senza saperlo, da uno degli scaffali, provai un brivido d’orrore. Mi sarei io dunque ridotto come il Romitelli, a sentir l’obbligo di leggere, io bibliotecario, per tutti quelli che non venivano alla biblioteca? E scaraventai il libro a terra. Ma poi lo ripresi; e – sissignori – mi misi a leggere anch’io, e anch’io con un occhio solo, perché quell’altro non voleva saperne.
Lessi così di tutto un po’, disordinatamente; ma libri, in ispecie, di filosofia. Pesano tanto: eppure, chi se ne ciba e se li mette in corpo, vive tra le nuvole. Mi sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano. Quando la testa mi fumava, chiudevo la biblioteca e mi recavo per un sentieruolo scosceso, a un lembo di spiaggia solitaria.
La vista del mare mi faceva cadere in uno sgomento attonito, che diveniva man mano oppressione intollerabile. Sedevo su la spiaggia e m’impedivo di guardarlo, abbassando il capo: ma ne sentivo per tutta la riviera il fragorìo, mentre lentamente, lentamente, mi lasciavo scivolar di tra le dita la sabbia densa e greve, mormorando:
– Così, sempre, fino alla morte, senz’alcun mutamento, mai…
L’immobilità della condizione di quella mia esistenza mi suggeriva allora pensieri sùbiti, strani, quasi lampi di follia. Balzavo in piedi, come per scuotermela d’addosso, e mi mettevo a passeggiare lungo la riva; ma vedevo allora il mare mandar senza requie, là, alla sponda, le sue stracche ondate sonnolente; vedevo quelle sabbie lì abbandonate; gridavo con rabbia, scotendo le pugna:
– Ma perché? ma perché?
E mi bagnavo i piedi.
Il mare allungava forse un po’ più qualche ondata, per ammonirmi:
«Vedi, caro, che si guadagna a chieder certi perché? Ti bagni i piedi. Torna alla tua biblioteca! L’acqua salata infradicia le scarpe; e quattrini da buttar via non ne hai. Torna alla biblioteca, e lascia i libri di filosofia: va’, va’ piuttosto a leggere anche tu che Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in‐8°: ne trarrai senza dubbio maggior profitto.»
Ma un giorno finalmente vennero a dirmi che mia moglie era stata assalita dalle doglie, e che corressi subito a casa. Scappai come un dàino: ma più per sfuggire a me stesso, per non rimanere neanche un minuto a tu per tu con me, a pensare che io stavo per avere un figliuolo, io, in quelle condizioni, un figliuolo!
Appena arrivato alla porta di casa, mia suocera m’afferrò per le spalle e mi fece girar su me stesso:
– Un medico! Scappa! Romilda muore!
Viene da restare, no? a una siffatta notizia a bruciapelo. E invece, «Correte!». Non mi sentivo più le gambe; non sapevo più da qual parte pigliare; e mentre correvo, non so come, – Un medico! un medico! – andavo dicendo; e la gente si fermava per via, e pretendeva che mi fermassi anch’io a spiegare che cosa mi fosse accaduto; mi sentivo tirar per le maniche, mi vedevo di fronte facce pallide, costernate; scansavo, scansavo tutti: – Un medico! un medico!
E il medico intanto era là, già a casa mia. Quando trafelato, in uno stato miserando, dopo aver girato tutte le farmacie, rincasai, disperato e furibondo, la prima bambina era già nata; si stentava a far venir l’altra alla luce.
– Due!
Mi pare di vederle ancora, lì, nella cuna, l’una accanto all’altra: si sgraffiavano fra loro con quelle manine così gracili eppur quasi artigliate da un selvaggio istinto, che incuteva ribrezzo e pietà: misere, misere, misere, più di quei due gattini che ritrovavo ogni mattina dentro le trappole; e anch’esse non avevano forza di vagire, come quelli di miagolare; e intanto, ecco, si sgraffiavano!
Le scostai, e al primo contatto di quelle carnucce tènere e fredde, ebbi un brivido nuovo, un tremor di tenerezza, ineffabile: – erano mie!
Una mi morì pochi giorni dopo; l’altra volle darmi il tempo, invece, di affezionarmi a lei, con tutto l’ardore di un padre che, non avendo più altro, faccia della propria creaturina lo scopo unico della sua vita; volle aver la crudeltà di morirmi, quando aveva già quasi un anno, e s’era fatta tanto bellina, tanto, con quei riccioli d’oro ch’io m’avvolgevo attorno le dita e le baciavo senza saziarmene mai; mi chiamava papà, e io le rispondevo subito: – Figlia –; e lei di nuovo: – Papà… –; così, senza ragione, come si chiamano gli uccelli tra loro.
Mi morì contemporaneamente alla mamma mia, nello stesso giorno e quasi alla stess’ora. Non sapevo più come spartire le mie cure e la mia pena. Lasciavo la piccina mia che riposava, e scappavo dalla mamma, che non si curava di sé, della sua morte, e mi domandava di lei, della nipotina, struggendosi di non poterla più rivedere, baciare per l’ultima volta. E durò nove giorni, questo strazio! Ebbene, dopo nove giorni e nove notti di veglia assidua, senza chiuder occhio neanche per un minuto… debbo dirlo? – molti forse avrebbero ritegno a confessarlo; ma è pure umano, umano, umano – io non sentii pena, no, sul momento: rimasi un pezzo in una tetraggine attonita, spaventevole, e mi addormentai.
Sicuro. Dovetti prima dormire. Poi, sì, quando mi destai, il dolore m’assalì rabbioso, feroce, per la figlietta mia, per la mamma mia, che non erano più… E fui quasi per impazzire. Un’intera notte vagai per il paese e per le campagne; non so con che idee per la mente; so che, alla fine, mi ritrovai nel podere della Stìa, presso alla gora del molino, e che un tal Filippo, vecchio mugnajo, lì di guardia, mi prese con sé, mi fece sedere più là, sotto gli alberi, e mi parlò a lungo, a lungo della mamma e anche di mio padre e de’ bei tempi lontani; e mi disse che non dovevo piangere e disperarmi così, perché per attendere alla figlioletta mia, nel mondo di là, era accorsa la nonna, la nonnina buona, che la avrebbe tenuta sulle ginocchia e le avrebbe parlato di me sempre e non me la avrebbe lasciata mai sola, mai.
Tre giorni dopo Roberto, come se avesse voluto pagarmi le lagrime, mi mandò cinquecento lire. Voleva che provvedessi a una degna sepoltura della mamma, diceva. Ma ci aveva già pensato zia Scolastica.
Quelle cinquecento lire rimasero un pezzo tra le pagine di un libraccio della biblioteca.
Poi servirono per me; e furono – come dirò – la cagione della mia prima morte.